Vescovo di Bolzano sui 100 anni della prima guerra mondiale: come si fa a parlare di vittoria?

“Adista”
n. 39, 17 novembre 2018

Luca Kocci

In questi giorni in cui si ricorda il centenario della fine della Prima Guerra mondiale (4 novembre 1918-4 novembre 2018), «nessuno dovrebbe parlare di vittoria». Il vescovo di Bolzano e Bressanone, nell’Alto Adige (o Sud Tirolo, un tempo austriaco), mons. Ivo Muser, in occasione della festa di Ognissanti, pubblica una lettera pastorale (“Beati gli operatori di pace”) che è una dura requisitoria contro la retorica della vittoria nella Grande guerra (andata regolarmente in onda in tv, sui giornali e nelle scuole, con la complicità delle Forze armate e del ministero della Difesa guidato dalla penstastellata Elisabetta Trenta, v. Adista notizie nn. 37-38/18) e un invito a ricordare quella «inutile strage» – come ebbe a dire papa Benedetto XV nella Lettera ai capi dei popoli belligeranti l’1 agosto 1917 – per costruire la pace.

«Deve colpirci e indurci a riflettere il fatto che in questo incendio di vaste proporzioni che chiamiamo Prima Guerra mondiale si fronteggiarono soprattutto cristiani e nazioni che con naturalezza si dicevano “cristiane”», scrive Muser, che opportunamente ricorda quanto scrisse il suo predecessore del tempo, il principe vescovo Franz Egger di Bressanone, il 30 luglio 1914, due giorni dopo l’apertura delle ostilità fra Impero austro-ungarico e Serbia: «Se mai c’è stata una guerra giusta, allora è sicuramente quella attuale», affermò, chiedendo poi la benedizione di Dio: «Dio onnipotente, re del cielo e della terra, re delle schiere della guerra e sostegno del mondo, benedici con il tuo sangue innocente le armi imperiali… Conserva i combattenti nella loro fedeltà incrollabile e guidali in battaglie colme di fiducia sino alla felice vittoria!».

La guerra, scrive Muser, «non scoppiò inaspettata, bensì fu preparata a lungo nelle menti, nella politica, nella cultura e nella scienza, nell’economia e anche nella religione. Questo conflitto, oggi dobbiamo ammetterlo con onestà, fu voluto da molti e quasi comunemente definito “una guerra santa“, talvolta anche un “giudizio divino“ nei confronti di quanti erano considerati nemici della fede e della patria». Noi, prosegue, vogliamo ricordare «con riflessione e turbamento quel periodo della nostra storia per costruire ponti di pace», «la memoria e la riflessione servono a mantenere vivo il ricordo: per amore della pace, per amore della dignità umana, per amore del nostro futuro comune».

La Grande guerra, prosegue il vescovo di Bolzano, «ha provocato un dolore umano indicibile e la morte di milioni di persone. Le grandi catastrofi del XX secolo vanno messe in relazione a questa tragedia, non ultimo anche l‘enorme numero di vittime nella Seconda Guerra mondiale. L’ascesa e la presa del potere del fascismo in Italia non sarebbe concepibile senza la prima contesa bellica, tantomeno la Rivoluzione d’ottobre dei bolscevichi e la conseguente guerra civile russa, che inghiottì milioni di vite umane. Anche il nazionalsocialismo e la sua ideologia del disprezzo e dell’annientamento della persona, con il conseguente orribile piano di sterminio degli ebrei, trovano nel primo conflitto mondiale le loro radici. Nel fare memoria di questa catastrofe primigenia del XX secolo dobbiamo dare un nome alle radici della guerra: come il nazionalismo, diventato un surrogato della religione; l’odio, il disprezzo e l‘arroganza verso altri popoli; la pretesa ingiustificata di potere assoluto su vita e morte, ma anche la brama di ricchezza e di conquista. Allora come oggi la pace viene minacciata da massicci deficit di giustizia e violazioni dei diritti umani. Particolarmente pericolose sono anche la glorificazione e la giustificazione della violenza: un chiaro e forte no deve attraversare tutta la nostra società, quando gruppi di persone sono sospettati in modo generico o quando si invita a ripulire la nostra terra da determinate categorie di persone». Perciò, in questi giorni, aggiunge mons. Muser, «nessuno dovrebbe parlare di vittoria. I monumenti di ogni genere inneggianti alla vittoria, che rimandano a dittature e guerre, dovrebbero perdere la loro forza di attrazione una volta per tutte. Sarebbe un segno concreto e lungimirante se la piazza davanti al monumento alla Vittoria a Bolzano fosse rinominata in piazza dedicata alla pace, alla riconciliazione, alla comprensione, alla volontà di convivenza! Non si chiamano vittorie quelle che si raggiungono attraverso guerra, nazionalismo, disprezzo di altri popoli, lingue e culture. Alla fine di una guerra ci sono sempre e solo sconfitti!». «Non dimentichiamo mai», conclude il vescovo altoatesino: «La guerra non ha inizio sui campi di battaglia, ma nei pensieri, nei sentimenti e nelle parole delle persone. I nostri pensieri non sono mai neutrali e il nostro linguaggio ci tradisce sempre. C’è una stretta correlazione tra pensare, parlare e agire, cent’anni fa e anche oggi.

Non dimentichiamo poi le migliaia di giovani, anche della nostra terra, mandati al massacro. Sono un monito a lavorare per concreti progetti di pace. L’auspicio è che siano soprattutto i nostri giovani a costruire assieme il loro presente e il loro futuro. Conoscendo i tragici eventi di cento anni fa e visitando gli scenari bellici dove ragazzi come loro si sono fronteggiati e uccisi in una guerra assurda, possono capire che la pace non è una cosa scontata ma va voluta e costruita giorno per giorno».

Una posizione piuttosto diversa da quella espressa da Riforma, il settimanale delle Chiese evangeliche, che nel numero del 2 novembre, pubblica una lunga intervista allo storico Giorgio Rochat (v. Adista News, 31 ottobre). «Il conflitto del 1914-18, diversamente da quello successivo, fu combattuto da un Paese unito. Per questo motivo esso rimane nella memoria collettiva senza suscitare vergogna», scrive Samuele Revel, prima di passare la parola a Rochat. La Prima Guerra mondiale, spiega Rochat, è «stata la prima e anche l’ultima di un Paese unito. La classe dirigente di allora era preparata e la condusse con coscienza e consapevolezza: insomma, semplificando, l’ha fatta “bene”. Ma non mi si fraintenda, la guerra è sempre sbagliata, questo voglio sia chiaro». Almeno questo.