I cento anni di Lidia Menapace: una vita partigiana

“Adista”
n. 14, 13 aprile 2024

Luca Kocci

Avrebbe compiuto cento anni lo scorso 3 aprile Lidia Brisca Menapace, classe 1924, partigiana, docente universitaria di lingua e letteratura italiana, consigliera e assessora democristiana a Bolzano negli anni Cinquanta e Sessanta, giornalista e militante del manifesto negli anni Settanta, senatrice di Rifondazione comunista dal 2006 al 2008, femminista e pacifista per tutta la vita.

Alcune recenti pubblicazioni consentono di conoscere e attraversare le tante vite di Lidia, il titolo scelto da Valentina Stecchi, illustratrice altoatesina che ha appena pubblicato per l’editore People una graphic novel su Menapace (Valentina Stecchi, Lidia, People, pp. 120, €19): un dialogo immaginario fra due donne, la centenaria Lidia e la trentenne Valentina, che cerca di dare forma ai suoi pensieri proprio grazie alle riflessioni di Menapace, che del linguaggio e della consapevolezza ha fatto la sua lotta. Il risultato è un confronto a trecentosessanta gradi, in cui si parla di Resistenza, di guerra, di femminismo e della società, senza mai perdere di vista l’ironia e i piccoli piaceri della vita. «Lidia diceva, anche quando era ormai molto anziana, di essere “partigiana sempre” – scrive Stecchi –: perché il fascismo è contrazione costante delle possibilità dell’essere umano fino al suo annientamento, perché si basa sul procurare umiliazione, dolore, miseria, esclusione e morte, mentre lei ha sempre cercato per tutta la sua vita di fare esattamente il contrario. Ha insegnato a tutti, fino all’ultimo, a liberare noi stessi e gli altri, ad apprezzare e conoscere le differenze, arricchire le menti e combattere le miserie materiali, lottare per ciò in cui si crede, a favore dell’umanità».

La Storia in un’amicizia

Due donne sono le protagoniste anche del bel libro di Ileana Montini, Lidia Menapace, donna del cambiamento. Lettere 1968-1991 (Gabrielli Editori, pp. 166 €17, può essere acquistato anche presso Adista: tel. 066868692, email: abbonamenti@adista.it, http://www.adista.it), che costruisce un percorso mediante le tante lettere che le amiche Lidia e Ileana si sono scambiate, grazie al quale si può osservare una porzione della recente storia d’Italia attraverso il racconto di un’amicizia intensa e profonda, ma anche rivivere e gustare il sapore di una relazione che si distilla mentre percorre lentamente le serpentine tortuose di un ventennio, quello degli anni ‘70-‘80, denso di avvenimenti, rivolgimenti ed esperienze. «Da decenni le lettere erano riposte in una cartella azzurra della libreria», ricorda Montini. «Le ho riprese in mano una alla volta, letta una dopo l’altra e ho scritto come se riavvolgessi un nastro registrato. La registrazione di un lungo cammino di vita. Nelle lettere lei, io, le altre, gli altri, i luoghi, i tempi, la storia di un Paese».

Si comincia con la Democrazia cristiana, partito nella quale entrambe militavano. Lidia Brisca da tempo: nata nel 1924 a Novara, staffetta partigiana, laureata e poi docente di lingua e letteratura italiana all’università Cattolica di Milano – da cui poi verrà cacciata –, arriva alla Dc attraverso la Fuci, diventando consigliera e assessora provinciale (agli affari sociali e alla sanità) a Bolzano, dove si era trasferita con il marito Eugenio Menapace, nonché componente del Consiglio nazionale e del Comitato centrale del Movimento femminile. Fino al ‘68 quando incontra il marxismo e la contestazione cattolica. «Restare o andarsene, ma dove?», scrive alla più giovane Ileana che le manifestava i propri dubbi sull’opportunità della permanenza nel partito. «Soprattutto non andarsene alla spicciolata: la Dc non domanda di meglio che sostituire a uno a uno i personaggi incomodi che se ne vanno». Promessa disattesa poco dopo, quando Menapace lascia il partito e lo comunica all’amica, in una lettera del luglio 1968: «Come vedi non ce la faccio più a rimanere nella Dc e, benché non sappia dove altro andare, comunque vado fuori».

L’anno successivo «Lidia aveva trovato dove andare e ne era entusiasta», ricorda Montini: a Roma, in via Tomacelli, dove c’era il neonato manifesto, dopo l’espulsione del “dissidenti” dal Pci. E viene presto seguita dall’amica: «Luigi [Pintor] e Rossana [Rossanda] vorrebbero che anche tu venissi a Roma, eventualmente anche per lavorare al giornale», scrive nel 1972 Menapace a Montini, che in precedenza aveva collaborato con L’Avvenire d’Italia di Raniero La Valle (prima che venisse chiuso dalla Cei perché troppo di sinistra e troppo pacifista) e che si divideva fra l’insegnamento a scuola e la militanza politica. Lidia e Ileana, unite da un percorso comune a molti in quel periodo, dal cattolicesimo romano al marxismo non dogmatico. «Lascia, come sto cercando di fare anch’io, lascia cadere gli ultimi brandelli di virtù “cristiane”. Cioè il dominio di sé, l’oblio di sé, la generosità senza contropartite, in una parola lo spiritualismo e l’idealismo», le scrive Menapace nel 1976. «“Noi due siamo vaccinate”, mi diceva riferendosi alla nostra storia, che ci rendeva attente alle derive integraliste», ricorda Montini. Sono anche gli anni delle divisioni, al manifesto diventato anche gruppo politico, nella “nuova sinistra” in generale e nel mondo femminista, un altro terreno condiviso fra Montini e Menapace, che scrive Economia politica della differenza sessuale (1987), «diventato quasi un manuale di base per il femminismo dei centri di documentazione e delle università delle donne non allineate con la Libreria delle donne di Milano e la Comunità di Diotima» di Luisa Muraro, ricorda Montini. Passano gli anni, le strade si divaricano (per dissensi relativi al laboratorio psicopedagogico delle differenze, dove Montini si impegna negli anni ‘80) e la corrispondenza epistolare si interrompe – anche perché computer e web sostituiscono carta e penna –, ma non la «comune e intensa storia di amicizia, che invece, come un filo sottile, ha tenuto fino alla fine», fino al dicembre 2020, quando Menapace muore, nel terribile anno del Covid (v. Adista Segni Nuovi n. 1/21).

C’è molto da studiare

Per conoscere e addentrarsi in profondità nell’universo teorico e riflessivo di Menapace risulta fondamentale la lettura di Un pensiero in movimento. Scritti scelti (1960-2019), a cura di Carlo Bertorelle e Mariapia Bigaran (Edizioni Alphabeta Verlag, pp. 506, €24). I due curatori hanno compiuto un’operazione importante e in un senso titanica, ovvero quella di scandagliare le centinaia di scritti di Menapace (articoli, saggi, libri, opuscoli, conferenze, interventi, interviste), selezionarli e ordinarli in una sorta di antologia lungo sette filoni tematici, che tracciano un itinerario attraverso sessant’anni di impegno civile e politico e che non può essere ridotto a un’unica e schematica definizione: Resistenza, questione dell’autonomia sudtirolese, lingua e letteratura, distacco dalla Dc e scelta marxista, femminismo, pacifismo, teorie del cambiamento politico e sociale. «Speriamo possa essere un contributo a una conoscenza più puntuale e approfondita del suo pensiero e a una riflessione sulle vicende e sulle idee, in bilico tra memoria, storia e attualità, che lei ha condiviso con più di una generazione», spiegano i curatori. Un pensiero inascoltato, quello di Lidia Menapace, che sarebbe più utile che mai soprattutto oggi, in epoca di «terza guerra mondiale a pezzi», per usare un’espressione di papa Francesco. Come per esempio le riflessioni sull’Europa, che per lei avrebbe dovuto essere il terreno sul quale edificare un futuro di pace. Lidia sostiene e ricerca fino alla fine «istanze e soluzioni che prefigurino un’Europa neutrale, disarmata e capace di esercitare un ruolo di mediazione nei conflitti tra singoli Stati», spiegano i curatori del volume. «È l’approdo a un pensiero che vuole la guerra fuori dalla storia, insieme alla necessità di difendere la libertà e l’autonomia nei popoli: come Lidia scrive, e come oggi appare tragicamente ancora più evidente, uno dei grovigli più difficili da dipanare».

«Come starebbe male oggi Lidia Menapace, che si oppose al rito delle Frecce Tricolori, ad assistere al clima orrendo che viviamo», ha scritto Vicenzo Vita in un suo ricordo sul manifesto (2/4). «Sicuramente si sarebbe ritrovata nelle parole di Papa Francesco, che non avrebbe perdonato magari per certe posizioni residuali sulla sessualità. C’è da dire che, fino all’ultimo, una straordinaria donna capace di indagare la realtà, cogliendone la complessità contro ogni tentazione autoritaria e riduzionista, accettò di essere chiamata solo partigiana. Una parte per il tutto, il tutto per una parte».