Alla veglia di Pasqua il papa c’è, e rinnova l’appello per la pace

31 marzo 2024

“il manifesto”
31 marzo 2024

Luca Kocci

Papa Francesco ha presieduto regolarmente la veglia pasquale ieri sera a San Pietro. Non c’è stato quindi il temuto bis di quanto accaduto venerdì sera, quando il pontefice all’ultimo minuto ha rinunciato a partecipare alla Via crucis al Colosseo, dando retta ai medici, che avevano consigliato a Bergoglio, reduce da una bronchite, di restare a casa per evitare ricadute e rischiare di saltare gli appuntamenti di Pasqua.

Così ieri sera Francesco si è presentato puntuale alle 19.30 nell’atrio della basilica per la benedizione del fuoco – primo momento della celebrazione – e per il resto della veglia. Nell’omelia, incentrata sul racconto evangelico della risurrezione, anche una riflessione sulla guerra, prendendo spunto dalla «pietra tombale» davanti al sepolcro di Gesù: uno dei tanti «macigni di morte» che vediamo «nei muri di gomma dell’egoismo e dell’indifferenza, che respingono l’impegno a costruire città e società più giuste» e «in tutti gli aneliti di pace spezzati dalla crudeltà dell’odio e dalla ferocia della guerra».

La guerra era stata evocata dal pontefice anche durante la Via crucis al Colosseo di venerdì. Bergoglio, come detto, non ha partecipato al rito, seguendolo a distanza dal Vaticano, ma per la prima volta ha voluto scrivere personalmente le meditazioni per le quattordici stazioni della Via crucis. L’ottava in particolare è stata dedicata alla «follia della guerra», ai «volti di bimbi che non sanno più sorridere» e alle «madri che li vedono denutriti e affamati e non hanno più lacrime da versare». Inevitabile pensare alla tragedia di Gaza. E un forte appello alla pace verrà rilanciato questa mattina dal papa nel tradizionale messaggio Urbi ed Orbi dalla loggia centrale della basilica di San Pietro: pace in Palestina, in Ucraina e in tutti i luoghi del mondo in cui si combatte.

“L’Iitalia ripudia la guerra. L’Europa no?”: la desolata preoccupazione del card. Zuppi

30 marzo 2024

“Adista”
n. 12, 30 marzo 2024

Luca Kocci

Il discorso sulla pace è stato al centro della sessione primaverile del Consiglio episcopale permanente, che si è svolto a Roma dal 18 al 20 marzo. «Non possiamo rassegnarci a un aumento incontrollato delle armi, né tanto meno alla guerra come via per la pace», ha detto il cardinale presidente della Cei Matteo Zuppi nell’introduzione con la quale ha aperto i lavori dell’esecutivo dei vescovi. «Mi sono chiesto – ha aggiunto – quale fosse la priorità da offrire alla nostra riflessione e condivisione. Ho trovato un’unica e chiara risposta: la pace. I conflitti di cui l’umanità si sta rendendo protagonista in questo primo quarto del XXI secolo ci mostrano la fatica di essere fratelli, abitanti della casa comune. Vediamo anche le conseguenze di “non scelte”, di rimandi colpevoli, di occasioni perdute. È la fraternità stessa a essere messa in dubbio, la possibilità di convivere senza dover competere o addirittura eliminare l’altro per poter vivere».

In particolare è la guerra in Ucraina a cui guarda il capo dei vescovi italiani, che ha ripreso – e difeso – le dichiarazioni di papa Francesco alla Radiotelevisione della Svizzera italiana della scorsa settimana («Occorre avere il coraggio di negoziare»), criticate da Nato, Usa, Europa e Kiev per il sentore di resa che secondo loro emanavano. «Le parole del papa sono tutt’altro che ingenuità», ha spiegato Zuppi, ribadendo la necessità di trovare una via pacifica per la «composizione dei conflitti», «facendo trionfare il diritto e il senso di responsabilità sovranazionale». La storia, ha proseguito, «esige di trovare un quadro nuovo, un paradigma differente, coinvolgendo la comunità internazionale per trovare insieme alle parti in causa una pace giusta e sicura». «Possiamo ancora accettare che solo la guerra sia la soluzione dei conflitti? Ripudiarla non significa arrestarne la progressione o dobbiamo aspettare l’irreparabile per capire e scegliere?», ha chiesto il presidente della Cei, che nelle prossime settimane volerà a Parigi per incontrare il presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron – principale sponsor dell’invio di truppe a sostegno dell’Ucraina contro la Russia – dopo essere stato già a Kiev, Mosca, Washington e Pechino per conto di papa Francesco. «L’Italia ripudia la guerra», «l’Europa no?», ha concluso Zuppi. E hanno poi ribadito i vescovi nel comunicato finale: «Di fronte a una cultura che sembra essere assuefatta alla guerra, a un aumento incontrollato delle armi e a un sistema economico che beneficia della corsa agli armamenti, occorre riprendere il dialogo tra Chiesa e mondo attraverso cammini educativi che offrano alternative alle logiche ora dominanti. In quest’ottica, l’esperienza dell’obiezione di coscienza e il patrimonio di azioni sperimentate nel passato possono costituire una base da cui ripartire per tornare a educare alla pace e dare prospettive di futuro, specialmente ai giovani».

Autonomia differenziata? Il no dei vescovi

Due in particolare i temi di politica interna affrontati al Consiglio episcopale: l’autonomia differenziata, sonoramente bocciata; il fine-vita, con la riaffermazione del no all’eutanasia.

«Suscita preoccupazione la tenuta del sistema Paese, in particolare di quelle aree che ormai da tempo fanno i conti con la crisi economica e sociale, con lo spopolamento e con la carenza di servizi – ha detto Zuppi –. Non venga meno un quadro istituzionale che possa favorire uno sviluppo unitario, secondo i principi di solidarietà, sussidiarietà e coesione sociale. Su questo versante, la nostra attenzione è stata costante e resterà vigile», prefigurando così anche un impegno diretto della Cei contro la legge voluta soprattutto dalla Lega, se si dovesse arrivare a referendum. E con uguale nettezza, nel comunicato finale i vescovi hanno rinnovato l’appello «per uno sviluppo unitario, che metta in circolo in modo virtuoso la solidarietà e la sussidiarietà, promuovendo la crescita e non alimentando le disuguaglianze».

Fine-vita: l’eutanasia no, ma…

Sul fine-vita, invece, si è notata una divaricazione fra le parole di Zuppi e quelle del comunicato finale. Entrambi hanno sottolineato la necessità e l’urgenza di applicare pienamente le «cure palliative» ai malati terminali. Se però il presidente della Cei ha incoraggiato anche ad applicare pienamente la norma «sulle disposizioni anticipate di trattamento», nel comunicato finale dei vescovi non c’è alcun riferimento al cosiddetto testamento biologico, mentre si parla espressamente dei rischi di «una certa deriva eutanasica», in particolare con la «fuga in avanti di alcune Regioni desiderose di colmare un vuoto legislativo in tema di fine vita». Invece, rimarcano i vescovi, «è fondamentale ribadire che la vita è sacra, sempre e in qualunque condizione, e che su di essa non si può giocare a ribasso».

Vescovi stanchi di sinodo

Per quanto riguarda il cammino sinodale della Chiesa italiana, i vescovi ne sottolineano luci («una creatività che continua a essere intensa») ma anche ombre («qualche stanchezza» in molte diocesi). Prossime assemblee sinodali nell’autunno 2024 (15-17 novembre) e a primavera 2025 (31 marzo-4 aprile 2025), quando l’assemblea generale del Sinodo dei vescovi sarà già conclusa. Allarme generalizzato e preoccupato, invece, sulla questione dei Sacramenti dell’iniziazione cristiana, sempre più vissuti come scadenza sociologica che come tappa importante nella vita dei fedeli. «Nella società attuale, se il riferimento ai Sacramenti appare ancora molto diffuso, talvolta risulta svuotato di significato, un fatto convenzionale riconosciuto come elemento della tradizione, ma che non consente più di dare per scontata la fede», hanno concluso i vescovi, secondo i quali è «urgente un ripensamento dei cammini tradizionali che permetta di intrecciare sempre di più la consegna delle forme pratiche della fede con la trasmissione delle esperienze elementari della vita».

I prossimi appuntamenti per la Chiesa italiana: ad aprile (3-4) è previsto a Bruxelles l’incontro del direttivo del Consiglio dei giovani del Mediterraneo, la cui sede verrà inaugurata a Fiesole il 16 dello stesso mese. A maggio (20-23) l’Assemblea generale della Cei, con la presenza di papa Francesco. A luglio (3-7) la cinquantesima Settimana sociale dei cattolici in Italia, sul tema “Al cuore della democrazia. Partecipare tra storia e futuro”, anch’essa conclusa dal pontefice. 

Continua a “non tacere” don Peppe Diana, nel trentesimo anniversario del suo assassinio

30 marzo 2024

“Adista”
n. 12, 30 marzo 2024

Luca Kocci

Un «servo buono e fedele che ha operato profeticamente calandosi nel deserto esistenziale di un popolo a lui tanto caro, servito e difeso fino al sacrificio della propria esistenza». Con queste parole papa Francesco, in occasione del trentesimo anniversario del suo assassinio per mano dei killer della camorra (19 marzo 1994), ha ricordato don Giuseppe Diana, in una lettera inviata a mons. Angelo Spinillo, vescovo di Aversa, nel cui territorio ricade Casal di Principe, dove Diana era parroco di San Nicola di Bari.

«Desidero rivolgere un pensiero paterno all’intera comunità diocesana e specialmente ai fedeli della parrocchia di Casal di Principe che, nel fare memoria di don Peppe, come affettuosamente veniva chiamato, vuole vivere la sua stessa speranza di camminare insieme incarnando la profezia cristiana, che ci invita a costruire un mondo libero dal giogo del male e da ogni tipo di prepotenza malavitosa – si legge nella lettera del pontefice –. La mia riconoscenza va anche a coloro che continuano l’opera pastorale che don Diana ha avviato come assistente spirituale di associazioni e di gruppi di fedeli, in particolare di giovani e di realtà legate agli scout. Esprimo vicinanza e incoraggiamento a tutti voi che, orientati dall’annuncio profetico “Per amore del mio popolo…” (Is 62,1), perseverate sulla via tracciata da don Diana e, con impegno quotidiano, coltivate pazientemente il seme della giustizia e il sogno dello sviluppo umano e sociale per la vostra terra». Il suo sacrificio, conclude il testo, «ci sprona a ravvivare in noi quella evangelica inquietudine che ha animato il suo sacerdozio e lo ha portato senza alcuna esitazione a contemplare il volto del Padre in ogni fratello, testimoniando a chi si sente ferito il progetto di Dio, perché ciascuno potesse vivere nella giustizia, nella pace e nella libertà».

Al vescovo Spinillo ha scritto anche il card. Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Conferenza episcopale italiana. Don Diana era «un uomo di Dio, un testimone semplice e coraggioso, appassionato del suo Signore e per questo senza compromessi con chi offende l’umanità e Dio. La sua testimonianza, chiara e senza nessuna ambiguità, è luce nelle tenebre di una violenza che è solo vigliacca, che arma le mani e i cuori e che cresce sempre nell’indifferenza», scrive Zuppi (che però evita di nominare la parola “camorra” nel suo ricordo del prete assassinato). «Il suo sacrificio è il seme caduto a terra per la viltà di un assassino e del sistema di morte che si portava dentro e lo accecava. Il seme continua a dare frutto: l’amore per i poveri, l’attenzione ai fragili, la giustizia nei comportamenti, l’onesta che non accetta opportunismi, rendere il mondo migliore di come lo abbiamo trovato, come ricorda la legge scout che ha amato».

Un prete troppo scomodo

A ricordare don Diana, anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. «Sono trascorsi trent’anni dal giorno in cui i camorristi assassini uccisero vigliaccamente don Giuseppe Diana nella sacrestia della chiesa dove si preparava a celebrare la Messa. Volevano far tacere una voce scomoda che, senza timore, si ribellava al giogo delle mafie», ha dichiarato il presidente Mattarella, fratello di Piersanti, anch’egli ucciso dalla mafia, a Palermo. «Un testimone di speranza, educatore alla libertà, punto di riferimento per i giovani e le persone oneste di Casal di Principe – ha proseguito il capo dello Stato –. La crudeltà con cui hanno strappato alla vita un uomo giusto, non è riuscita a sottomettere la comunità. Gli assassini sono stati individuati e condannati. La testimonianza di don Diana è divenuta un simbolo potente di liberazione, una spinta al riscatto sociale. Don Giuseppe ai ragazzi insegnava che la via della libertà passa dal non piegare la testa al ricatto mafioso e che è possibile costruire un mondo migliore. Pagò con la vita il coraggio e la coerenza personale e la sua vita è diventata lezione, patrimonio per il Paese».

Nato nel 1958 a Casal di Principe, dopo gli studi alla Facoltà teologica dell’Italia meridionale di Napoli retta dai gesuiti, Diana viene ordinato prete nel 1982 e inviato in parrocchia nel proprio paese. La sua pastorale quotidiana diventa impegno sociale, denuncia del sistema di corruzione e lotta alla camorra, anche perché decide di prendere sul serio un importante documento dell’episcopato campano – ispirato dal vescovo di Acerra Antonio Riboldi –, Per amore del mio popolo non tacerò: un atto d’accusa contro la criminalità organizzata, un appello ai credenti a partecipare attivamente alla vita civile, una sferzata alla Chiesa “del silenzio”, perché superi gli opportunismi e si schieri contro la camorra. Mentre si intensifica la guerra fra gli emergenti Schiavone e De Falco per il controllo del clan al posto dei vecchi boss Bardellino e Iovine, nel 1989 don Diana viene nominato parroco. Abolisce le costose manifestazioni spettacolari per le feste patronali, con cui i camorristi, grazie alla connivenza interessata del clero, addomesticano il sacro al proprio dominio. A Natale 1991, insieme agli altri preti della Forania di Casal di Principe, scrive e diffonde nelle parrocchie un documento che, riallacciandosi a quello del 1982, denuncia una situazione in cui «il disfacimento delle istituzioni civili ha consentito l’infiltrazione del potere camorristico a tutti i livelli». Borghesia mafiosa e democristiani collusi non apprezzano. Il Sistema emette la sentenza. La mattina del 19 marzo 1994 i killer della camorra agli ordini di De Falco entrano nella sacrestia della chiesa e sparano al parroco che si stava preparando per la messa. Don Diana si era spinto troppo oltre, andava fermato.

E proprio nella “sua” Casal di Principe don Diana è stato ricordato, lo scorso 19 marzo, con un corteo a cui hanno partecipato migliaia di persone, fra cui molte studentesse e studenti, concluso dall’intervento di don Luigi Ciotti, fondatore e presidente di Libera, il quale ha auspicato «che si arrivi alla beatificazione di don Peppe Diana, perché il martirio è davanti agli occhi di tutti, la sua capacità di dire parole coraggiose e di denuncia ma anche di fare proposte e azioni partendo dalla parola di Dio. Nella nostra mente e nei nostri cuori, don Peppino è già santo»

Zuppi: «Ma l’Europa non ripudia la guerra?»

19 marzo 2024

“il manifesto”
19 marzo 2024

Luca Kocci

«Non possiamo rassegnarci a un aumento incontrollato delle armi, né tanto meno alla guerra come via per la pace». Il cardinale presidente della Cei Matteo Zuppi, aprendo ieri pomeriggio a Roma il Consiglio episcopale permanente, ha messo al centro del suo intervento il tema della pace, «priorità» assoluta visti «i conflitti di cui l’umanità si sta rendendo protagonista in questo primo quarto di secolo».

In particolare è la guerra in Ucraina a cui guarda il capo dei vescovi italiani, che ha ripreso – e difeso – le dichiarazioni di papa Francesco alla Radiotelevisione della Svizzera italiana della scorsa settimana («Occorre avere il coraggio di negoziare»), criticate da Nato, Usa, Europa e Kiev per il sentore di resa che secondo loro emanavano. «Le parole del papa sono tutt’altro che ingenuità», ha spiegato Zuppi, ribadendo la necessità di trovare una via pacifica per la «composizione dei conflitti», «facendo trionfare il diritto e il senso di responsabilità sovranazionale».

La storia, ha aggiunto, «esige di trovare un quadro nuovo, un paradigma differente, coinvolgendo la comunità internazionale per trovare insieme alle parti in causa una pace giusta e sicura». «Possiamo ancora accettare che solo la guerra sia la soluzione dei conflitti? Ripudiarla non significa arrestarne la progressione o dobbiamo aspettare l’irreparabile per capire e scegliere?», ha chiesto il presidente della Cei, che nelle prossime settimane volerà a Parigi per incontrare il presidente francese Macron – principale sponsor dell’invio di truppe a sostegno dell’Ucraina contro la Russia – dopo essere stato già a Kiev, Mosca, Washington e Pechino per conto di papa Francesco. «L’Italia ripudia la guerra», «l’Europa no?», ha concluso Zuppi (e «quale Europa in un mondo in guerra?» è il tema di un incontro promosso a Roma domani alle 18 da Pax Christi e Movimento dei Focolari con l’ex direttore di Avvenire Marco Tarquinio: via del Carmine 3). Il presidente della Cei ha parlato anche di politica italiana, in termini non proprio amichevoli nei confronti del governo. Ha proposito di fine vita, ha invitato a utilizzare «senza alcuna discrezionalità» le cure palliative («disciplinate da una buona legge ma ancora disattesa») e ad applicare pienamente la norma «sulle disposizioni anticipate di trattamento», il cosiddetto testamento biologico. Sull’autonomia differenziata, poi, la bocciatura è netta, prefigurando anche un impegno diretto della Cei contro la legge voluta soprattutto dalla Lega. «Suscita preoccupazione la tenuta del sistema Paese, in particolare di quelle aree che ormai da tempo fanno i conti con la crisi economica e sociale, con lo spopolamento e con la carenza di servizi – ha detto Zuppi –. Non venga meno un quadro istituzionale che possa favorire uno sviluppo unitario, secondo i principi di solidarietà, sussidiarietà e coesione sociale. Su questo versante, la nostra attenzione è stata costante e resterà vigile».

Giuseppe Diana, il parroco ucciso trent’anni fa

19 marzo 2024

“il manifesto”
19 marzo 2024

Luca Kocci

Sono trascorsi trent’anni dall’assassinio, il 19 marzo 1994, di don Giuseppe Diana, il parroco di Casal di Principe ucciso dai camorristi casalesi, che avevano deciso di far tacere quel giovane prete che parlava, denunciava, incoraggiava fedeli e preti a uscire dalla sacrestia e lottare contro il sistema camorristico e per il riscatto dei propri territori.

Esce ora un libro dello storico Sergio Tanzarella che ricostruisce il contesto socio-politico-ecclesiale, il profilo e la vicenda di don Diana, attingendo a nuove fonti d’archivio e agli atti del processo che ha condannato mandanti ed esecutori dell’omicidio, liquidando definitivamente i depistaggi che avevano tentato di trasformare l’assassinio del parroco in un delitto passionale o in una sorta di regolamento di conti fra camorristi (Sergio Tanzarella, Don Peppino Diana. Un prete affamato di vita, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2024, € 18, pp. 212). I documenti, scrive l’autore, dimostrano che «Diana non fu ucciso per caso ma perché prete e organizzatore di una seria azione di denuncia dell’attività criminale della camorra, dell’illegalità sociale sistemica e della gestione politica clientelare, oltre al sacerdotale impegno per la formazione delle coscienze, soprattutto dei giovani, all’interno di una precisa scelta pastorale ispirata alla Sacra Scrittura e tesa tra evangelizzazione e profezia».

Nato nel 1958 a Casal di Principe, studia dai gesuiti alla Facoltà teologica di Napoli, viene ordinato prete nel 1982 e inviato in parrocchia nel proprio paese. La sua pastorale quotidiana diventa impegno sociale, denuncia del sistema di corruzione e lotta alla camorra, anche perché don Diana prende sul serio un importante documento dell’episcopato campano – ispirato dal vescovo di Acerra Riboldi –, Per amore del mio popolo non tacerò: un atto d’accusa contro la criminalità organizzata, un appello ai credenti a partecipare attivamente alla vita civile, una sferzata alla Chiesa “del silenzio”, perché superi gli opportunismi e si schieri contro la camorra.

Mentre si intensifica la guerra fra gli emergenti Schiavone e De Falco per il controllo del clan al posto dei vecchi boss Bardellino e Iovine, nel 1989 don Diana viene nominato parroco. Abolisce le costose manifestazioni spettacolari per le feste patronali, con cui i camorristi, grazie alla connivenza interessata del clero, addomesticano il sacro al proprio dominio. A Natale 1991, insieme agli altri preti di Casal di Principe, scrive e diffonde nelle parrocchie un documento che, riallacciandosi a quello del 1982, denuncia una situazione in cui «il disfacimento delle istituzioni civili ha consentito l’infiltrazione del potere camorristico a tutti i livelli». Borghesia mafiosa e democristiani collusi non apprezzano. Il Sistema emette la sentenza. La mattina del 19 marzo 1994 i killer della camorra agli ordini di De Falco entrano nella sacrestia della chiesa e sparano al parroco che si stava preparando per la messa. Don Diana si era spinto troppo oltre, andava fermato.

Il volume viene presentato oggi alle ore 19 al teatro “Don Peppe Diana” di Portici a Napoli (viale Tiziano, 15), partecipa l’autore.

Minacciati diritti umani e trasparenza finanziaria: giù le mani dalla legge 185!

16 marzo 2024

“Adista”
n. 10, 16 marzo 2024

Luca Kocci

l Senato la votazione definitiva per le modifiche peggiorative volute dal governo alla Legge 185/90 che regola l’export di armamenti made in Italy è finita 83 a 42 (Partito Democratico, Movimento 5 Stelle, Alleanza Verdi Sinistra), e ora si teme davvero che a giorni, quando si esprimerà anche la Camera dei Deputati, il provvedimento che negli ultimi 35 anni ha costituito un argine alla liberalizzazione totale della vendita di armi all’estero venga irrimediabilmente depotenziato, per la gioia di produttori, mercanti d’armi e banche armate. È per questo che la Rete italiana Pace e Disarmo, formata da oltre cinquanta associazioni, chiama alla mobilitazione con un nuovo appello: «Basta favori ai mercanti di armi! Fermiamo lo svuotamento della Legge 185» (v. anche il fascicolo allegato di Adista Segni Nuovi).

Si tratta di una legge innovativa che il Parlamento ha approvato nel 1990, al termine di una grande campagna della società civile che ha consentito l’inserimento di criteri non economici nella valutazione delle singole autorizzazioni all’export di armamenti, come per esempio il divieto di vendere armi a Paesi in conflitto, che spendono troppo per gli eserciti o in cui ci siano gravi violazioni dei diritti umani. Certo, poi sono stati trovati diversi escamotage per aggirarla, primo fra tutti la stipula di accordi internazionali di cooperazione militare con alcuni Stati, che in questo modo non sono più sottoposti ai vincoli della 185. Tuttavia le limitazioni ci sono state, soprattutto nel primo quindicennio di applicazione della legge (1990-2005). E soprattutto la legge è stata determinante per la trasparenza, consentendo a Parlamento e società civile di conoscere i dettagli di un mercato spesso altamente opaco.

Al Senato, fra le altre, sono state introdotte due importanti modifiche peggiorative: il Comitato Interministeriale per gli Scambi di materiali di armamento per la Difesa (Cisd), unico debole organismo di controllo delle autorizzazione all’export che, anche in virtù del meccanismo del silenzio-assenso, rischia di liberalizzare totalmente il mercato; e la cancellazione integrale della parte della relazione annuale del governo al Parlamento che riporta i dettagli dell’interazione tra banche e industrie armiere. Con gli interventi approvati a Palazzo Madama, limitazioni all’export e trasparenza finanziaria sono seriamente messe in pericolo, anche «con l’utilizzo di false retoriche», spiegano da Rete Pace e Disarmo. Non è vero, infatti, «che c’è un problema di eccessivi controlli sull’esportazione di armi italiane e non è vero che questa modifica della legge favorirà una maggiore sicurezza per l’Italia in un momento di crisi internazionale». Al contrario: infatti, prosegue la nota della Rete, «facilitare la vendita all’estero di armi, che sicuramente finiranno nelle zone più conflittuali del mondo, aumenterà l’insicurezza globale, e quindi anche quella di tutti noi, solo per garantire un facile profitto di pochi». A chi giova allora? Ovviamente alla lobby dell’industria armiera, a cui «non fa piacere che ci sia trasparenza e controllo anche da parte della società civile, oltre che allineamento con principi che non prendono in considerazione solo i fatturati».

Le proposte di Rete Pace e Disarmo – esplicitate in alcuni emendamenti che al Senato non sono stati accolti – sono semplici e chiare. La prima è fare in modo che il Cisd «non si trasformi in un “via libera” preventivo a qualsiasi vendita di armi, ma sia sempre bilanciato dall’analisi tecnica e informata degli uffici preposti presso la Presidenza del Consiglio, il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, il Ministero della Difesa». Poi «migliorare la trasparenza complessiva sull’export di armi rendendo più completi e leggibili i dati della Relazione annuale del governo al Parlamento, in particolare contenendo indicazioni analitiche per tipi, quantità, valori monetari e Paesi destinatari delle armi autorizzate». Infine «impedire la cancellazione integrale della parte della Relazione che riporta i dettagli dell’interazione tra banche e aziende militari», ovvero l’elenco delle cosiddette “banche armate”.

Cosa si può fare per aderire alla mobilitazione? Innanzitutto sottoscrivere, come singole persone o come associazione, la petizione popolare a sostegno delle richieste di Rete Pace e Disarmo (shorturl.at/ekzCS) per fermare lo svuotamento della Legge 185 e chiedere un maggiore controllo sull’export di armi italiane. Poi farsi promotori, presso il proprio Comune di una mozione «in difesa della Legge 185/90 e per lo stop ad una modifica normativa che favorirà esportazioni irresponsabili di armi, che alimentano guerra e insicurezza». Infine fare pressione sui deputati eletti nel proprio territorio perché, quando si tratterà di votare le modifiche già approvate al Senato, le respingano. 

“Niente modifiche alla 185!”: appello di associazioni cattoliche alla coscienza dei deputati

16 marzo 2024

“Adista”
n. 10, 16 marzo 2024

Luca Kocci

Anche le associazioni e i movimenti cattolici si mobilitano per difendere la Legge 185/90 dalle modifiche, già approvate dal Senato e in attesa di andare in aula a Montecitorio, che vorrebbero rendere ancora più facile esportare armi e ridurre la trasparenza finanziaria (v. notizia precedente). Lo scorso 4 marzo, alla vigilia della seconda Giornata internazionale per la consapevolezza sul disarmo e la non proliferazione, in una conferenza stampa a Roma è stato presentato «l’appello alla coscienza dei Parlamentari contro il falso realismo della guerra» sottoscritto da Giuseppe Notarstefano (presidente Azione Cattolica Italiana), Emiliano Manfredonia (presidente Acli), Matteo Fadda (presidente Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII), Cristiana Formosa e Gabriele Bardo (responsabili Movimento dei Focolari Italia) e mons. Giovanni Ricchiuti (presidente Pax Christi Italia) e a cui hanno aderito anche Agesci, Banca Etica e Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia (Fcei).

«La Legge 185, che è stata una grande conquista della società civile, non abolisce il commercio delle armi ma vi pone delle limitazioni secondo alcuni criteri “umani”», ha spiega Carlo Cefaloni, redattore del mensile Città Nuova e moderatore della conferenza stampa. Ma ora, ha aggiunto Maurizio Simoncelli di Archivio Disarmo, «siamo a un punto di svolta verso il via libera generalizzato all’esportazione di armi a chiunque». E p. Alex Zanotelli, religioso comboniano dalle cui denunce negli anni ‘80 sul mensile Nigrizia del traffico di armi in Africa partì la mobilitazione che nel 1990 portò all’approvazione della legge che ora il governo vuole smontare: «In un mondo sempre più armato e militarizzato, abbiamo ancora più bisogno della 185. Ma il governo, fra i cui esponenti c’è il ministro della Difesa Guido Crosetto, già presidente della Federazione delle aziende armiere, è “pappa e ciccia” con il complesso militare industriale». Infatti, ha aggiunto Maria Elena Lacquaniti, coordinatrice Commissione globalizzazione e ambiente della Fcei, «i parlamentari che hanno proposto e approvato le modifiche, hanno eseguito come scolaretti le richieste della lobby delle armi».

Andrea Baranes, presidente della Fondazione Finanza Etica e consigliere d’amministrazione di Banca Etica, ha sottolineato soprattutto la mancanza di trasparenza finanziaria che provocheranno le modifiche alla legge: «I cittadini e i consumatori hanno diritto a sapere come investe e impiega i soldi la propria banca, se sostiene il commercio delle armi o no, ora però non sarà più possibile». Stefano Tassinari, vicepresidente nazionale delle Acli, ha lanciato un grido di allarme: «Se in nome della crescita del Pil continuiamo a produrre e vendere armi, sviluppando un’economia di morte, dopodomani ai nostri figli e nipoti verrà chiesto di rimettersi l’elmetto». Del resto, ha aggiunto Giovanni Ramonda, dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, «la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha auspicato che l’Unione aumenti ancora la produzione di armi e avvii un programma comune di riarmo così come si è fatto per i vaccini, e il presidente francese Emmanuel Macron ha ipotizzato l’invio di truppe a fare la guerra in Ucraina». È quella che il deputato Paolo Ciani (unico parlamentare presente), già responsabile romano di Sant’Egidio e ora deputato di Demos, ha definito «tentativo culturale di normalizzare la guerra e di farci familiarizzare sempre più con le armi, comprese quelle nucleari, evocate sempre più spesso».

In questo contesto, cosa fare? «I rapporti di forza a Montecitorio sono negativi», ha ammesso Ciani. Occorre allora parlare alla società perché, come ha detto don Luigi Ciotti, fondatore e presidente di Libera, in certi momenti «tacere diventa una colpa e parlare è un obbligo morale e civile». E per coinvolgere la società, Zanotelli ha invocato l’impegno della Chiesa: «Gli enti ecclesiastici dovrebbero dare un segnale forte togliendo i propri soldi dalle banche che sostengono il commercio di armi, i vescovi e i parroci invitare i fedeli alla mobilitazione». Ma sono temi che fanno fatica a emergere, sia nelle parrocchie sia nella Conferenza episcopale italiana. «In questi 18 anni di episcopato – ha rivelato mons. Ricchiuti, da poco vescovo emerito di Altamura, ma ancora presidente di Pax Christi – nelle assemblee sono intervenuto molte volte, nei corridoi ho ricevuto sostegno e attestazioni di stima, ma a livello ufficiale non è successo molto altro. Nell’episcopato mancano ancora molto coraggio e tanta parresia evangelica».

Forse, aggiungiamo noi, la Cei non parla perché non ha ancora reciso tutti i rapporti con le banche armate (v. Adista Notizie n. 30/23), e quindi rischia di contraddire se stessa. Eppure in passato è intervenuta puntualmente per contestare alcuni provvedimenti legislativi sgraditi, dalla Legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita al testamento biologico, quindi potrebbe farlo anche in difesa della Legge 185. Del resto avrebbe un alleato fortissimo, ossia papa Francesco, che ne ha parlato nuovamente lo scorso 3 marzo, al termine dell’Angelus da piazza San Pietro: «Quante risorse vengono sprecate per le spese militari che, a causa della situazione attuale, continuano tristemente ad aumentare! Auspico vivamente che la comunità internazionale comprenda che il disarmo è innanzitutto un dovere, il disarmo è un dovere morale. Mettiamo questo in testa. E questo richiede il coraggio da parte di tutti i membri della grande famiglia delle Nazioni di passare dall’equilibrio della paura all’equilibrio della fiducia». 

Il solito «negoziare» del papa è diventato «arrendersi»

12 marzo 2024

“il manifesto”
12 marzo 2024

Luca Kocci

Fuoco di fila ad alzo zero contro papa Francesco che sventola la «bandiera bianca», cioè sostiene che in Ucraina, ma anche in Palestina, piuttosto che l’ostinazione a combattere per vincere occorre il coraggio di «negoziare» per raggiungere la pace.

Gli ultimi a sparare sul pontefice sono stati il segretario generale della Nato Stoltenberg, il presidente Usa Biden e il cancelliere tedesco Scholz con la ministra degli Esteri Baerbock. Putin «ha iniziato questa guerra e potrebbe mettervi fine oggi, ma l’Ucraina non ha questa opzione. Arrendersi non è pace. Dobbiamo continuare a rafforzare Kiev, per dimostrare a Putin che non otterrà quello che vuole», «se vogliamo trovare una soluzione negoziale duratura e pacifica, dobbiamo fare in modo di fornire supporto militare all’Ucraina», ha detto ieri Soltenberg – senza nominare Bergoglio, ma riferendosi chiaramente a lui – a margine della cerimonia a Bruxelles per l’ingresso ufficiale nell’Alleanza atlantica della ex neutrale Svezia, un atto che sicuramente non allenterà le tensioni con Mosca ma anzi contribuirà ad aumentarle. È stata poi la volta di Biden, tramite un portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale Usa, il quale ha riferito all’Ansa che «il presidente Biden ha grande rispetto per papa Francesco» ma «la pace in Ucraina potrebbe essere raggiunta se la Russia decidesse di mettere fine a questa guerra ingiusta e non provocata e ritirasse le sue truppe». Ancora più esplicita, Baerbock: «Davvero non capisco il pontefice, se non dimostriamo forza ora, non ci sarà pace». E un portavoce del governo tedesco ha fatto sapere che nemmeno il cancelliere Scholz condivide l’appello di papa Francesco a scegliere la via del negoziato.

Scontate le reazioni negative da parte di Kiev, che ha convocato l’ambasciatore vaticano in Ucraina, il nunzio apostolico Kulbokas. Domenica sera, parlando alla nazione, il presidente Zelensky ha detto che la vera chiesa cristiana è quella che si trova al fronte («ringrazio ogni cappellano ucraino che è nell’esercito, in prima linea» a proteggere «la vita e l’umanità») e non quella che sta «a 2.500 chilometri di distanza (cioè in Vaticano, n.d.r.), per svolgere una mediazione virtuale tra chi vuole vivere e chi vuole distruggerti». «Qualcuno allora ha mai parlato di negoziati di pace con Hitler e di bandiera bianca per soddisfarlo?», ha domandato retoricamente l’ambasciatore ucraino presso la Santa sede Yurash. E il capo della Chiesa greco-cattolica ucraina, l’arcivescovo Shevchuk: «In Ucraina nessuno ha la possibilità di arrendersi. E a chi guarda con scetticismo alla nostra capacità di stare in piedi, diciamo: venite in Ucraina e vedrete». Il verbo chiave sembra essere «arrendersi», eppure Bergoglio, nell’intervista alla Radiotelevisione della Svizzera italiana (Rsi), i cui contenuti sono stati anticipati sabato sera, non lo ha mai pronunciato, e l’espressione «bandiera bianca» è stata ripresa dall’immagine proposta dal conduttore del format dedicato ai colori, che per l’occasione era il bianco. Il papa ha però usato il verbo «negoziare», come peraltro fa da due anni – e ha inviato il cardinale Zuppi come negoziatore a Kiev, Mosca, Washington e Pechino –, accanto alla reiterata condanna dell’aggressione russa all’Ucraina. «Occorre avere il coraggio di negoziare», ha detto alla Rsi, «non abbiate vergogna di negoziare prima che la cosa sia peggiore». Ed è proprio il negoziato, camuffato con una bandiera bianca che sa di resa inaccettabile, il bersaglio degli attacchi al pontefice di chi quel negoziato non ha mai voluto né praticare né immaginare, perché continua a pensare il mondo diviso in due e vorrebbe che il papa indossasse elmetto con i colori di una delle due parti.

Manganello facile: la Chiesa non ci sta

9 marzo 2024

“Adista”
n. 9, 9 marzo 2024

Valerio Gigante – Luca Kocci

Anche nella Chiesa cattolica le manganellate della polizia ai giovani che manifestavano per la Palestina hanno suscitato una reazione davvero vibrante. Che segna forse un punto di non ritorno nei rapporti, già difficili, tra governo e mondo ecclesiale.

Questi i fatti: a Pisa e Firenze, il 23 febbraio scorso, la polizia ha caricato in maniera violenta due cortei organizzati a sostegno della causa palestinesi cui hanno preso parte molti studenti, in gran parte minorenni. Le cariche, in cui sono state ferite complessivamente 18 persone, hanno suscitato critiche nei confronti delle forze dell’ordine e dello stesso governo, con il ministero dell’Interno accusato di non aver fatto abbastanza per evitare che i cortei finissero in scontri e violenze.

A Firenze il corteo era partito da piazza Santissima Annunziata con l’intenzione di raggiungere il consolato americano, ma è stato caricato a piazza Ognissanti, poco prima di giungere al consolato. Sono state ferite cinque persone, tra cui una studentessa, fotografata con la faccia insanguinata e il naso fratturato.

Gli scontri più gravi si sono però verificati a Pisa, dove il corteo pro Palestina era partito da piazza Dante per poi imboccare via san Frediano, una strada molto stretta che sbuca su piazza dei Cavalieri, dove ha sede la Scuola Normale. Lì i manifestanti hanno trovato la strada sbarrata da un veicolo della polizia e da agenti in tenuta antisommossa. I manifestanti hanno provato ad avanzare, pacificamente e con le mani alzate; la polizia ha effettuato una «carica di alleggerimento», che doveva servire a ridurre la pressione del corteo e a sgomberare un po’ la folla. Invece, con il corteo bloccato nella strettoia di via San Frediano, i poliziotti hanno manganellato con violenza gli studenti, inseguendoli mentre scappavano. Alla fine ci sono stati 13 feriti, di cui otto minorenni e un poliziotto.

I fatti di Pisa e Firenze sono stati rilanciati da quasi tutti gli organi di informazione e hanno destato sconcerto e preoccupazione, al punto che anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella è intervenuto, con una telefonata al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi di cui ha voluto rendere di noti i contenuti, circostanza piuttosto inusuale. Mattarella ha detto che «l’autorevolezza delle forze dell’ordine non si misura sui manganelli ma sulla capacità di assicurare sicurezza tutelando, al contempo, la libertà di manifestare pubblicamente opinioni. Con i ragazzi i manganelli esprimono un fallimento».

Chiesa pisana: «Un buco nero nella nostra storia democratica»

Nella Chiesa cattolica le cariche della polizia hanno suscitato enorme disappunto. Lo prova il rapido allineamento alle posizioni del presidente della Repubblica da parte del cardinale segretario di Stato vaticano Pietro Parolin il quale, interpellato dai giornalisti a margine di una iniziativa all’ospedale Idi di Roma, ha dichiarato che i manganelli «sono certamente un fallimento, tutti siamo chiamati ad essere ragionevoli».

«Quando un cittadino viene ferito o picchiato dalle forze dell’ordine nel corso di una manifestazione – scrive Danilo Paolini in un editoriale sul quotidiano della Cei Avvenire (23/2) – vanno indagate le eventuali responsabilità delle autorità pubbliche. Non a causa di un pregiudizio negativo nei confronti dei corpi di polizia, come pure è stato sostenuto da qualche sparuto esponente del centrodestra in cerca di facile quanto sterile polemica, ma proprio perché il loro compito è far rispettare la legge a tutela, non a minaccia, di tutti i cittadini».

Se nessuna dichiarazione è arrivata dall’arcivescovo e dalla Curia di Firenze, nella diocesi di Pisa la repressione violenta del corteo studentesco ha provocato davvero un terremoto. Il Consiglio Pastorale della Arcidiocesi, che si era riunito proprio il 23 febbraio pomeriggio, poche ore dopo le cariche della polizia, a pochi metri da piazza dei Cavalieri, in un comunicato pubblicato sul sito e firmato dall’arcivescovo, mons. Giovanni Paolo Benotto, afferma come «la violenza non sia mai giustificata e in attesa che si faccia luce sull’accaduto e sull’operato delle forze dell’ordine, auspica che tutte le autorità competenti intervengano per garantire il corretto e pacifico confronto democratico, tutelando la sicurezza di tutti, dei giovani in particolare».

«Il 23 febbraio è un gravissimo buco nero nella nostra storia democratica». È severissimo anche il giudizio degli scout pisani sui fatti del 23 febbraio. «Come è possibile che una manifestazione pacifica di ragazzi sia stata repressa con una violenza così brutale? Come è possibile prendere a manganellate minorenni, i nostri ragazzi, il nostro futuro, solo perché manifestano? Non abbiamo il 25 Aprile a ricordarci il lungo cammino verso la Libertà? Non abbiamo il 2 Giugno a ricordarci di godere della Res Publica, di tutti quei fili dello stesso tessuto sociale che si intrecciano, diversi ma tutti con egual dignità? Abitiamo la Pace, educhiamo alla pace e poi lo Stato o chi lo rappresenta esercita questa violenza?». Sono le domande retoriche formulate in una nota firmata da Gabriele Cristoforetti, Elisa Salvestrini e p. Giuseppe Trotta, responsabili degli scout cattolici dell’Agesci di Pisa e da Sandra Benedetti, presidente degli scout laici pisani del Cngei, che poi il 24 febbraio erano tutti in piazza dei Cavalieri per il grande presidio per la pace e in solidarietà con studentesse e studenti feriti.

«I care, “mi interessa”, aveva scritto don Milani sul muro della scuola di Barbiana. È il motto dei giovani migliori ed è un riferimento per noi scout, impegnati nel formare le nuove generazioni a una partecipazione politica per lasciare il mondo migliore di come l’abbiamo trovato», prosegue il comunicato degli scout pisani. «Di fronte a giovani che manifestano la propria idea pacificamente, rivendichiamo il diritto ad esprimere le idee, a farsi attori nella realtà che ci circonda e ad indicarne le contraddizioni che emergono. Questa azione delle forze dell’ordine non è apparsa adeguata, dimostrandosi sproporzionata e asimmetrica vista anche la presenza di molti minorenni tra i manifestanti che non sono stati tutelati in alcun modo neppure nella loro incolumità fisica».

La richiesta degli scout alle autorità è di fare chiarezza, perché «quanto è avvenuto non è giustificabile e neanche spiegabile», e di «sapere chi ha dato l’ordine di fare queste cariche» e «se e quali provvedimenti verranno presi nei loro confronti».

L’Ac: “Con i manganelli non c’è futuro”

Dopo i fatti di Pisa e Firenze il Settore giovani dell’Azione Cattolica Italiana, la Fuci (gli universitari di Ac) e il Msac (l’organizzazione degli studenti medi) ha lanciato un appello, “Con i manganelli non c’è futuro”. «Vogliamo partire dicendo questo: la responsabilità in merito alle vicende che hanno visto coinvolti gli studenti e le forze dell’ordine a Pisa e Firenze è chiara e quanto abbiamo visto e sentito attraverso le testimonianze dei presenti ci porta a esprimere la nostra ferma e condivisa condanna per l’accaduto. L’esercizio del diritto a esprimere la propria opinione in maniera pacifica non può in alcun modo rappresentare un pretesto per la violenza, soprattutto da parte di chi è chiamato a garantire la sicurezza di tutti i cittadini». «Chiediamo, intanto, che non ci si dimentichi di quanto successo e che si continui, insieme, a chiedere giustizia. Chiediamo giustizia perché chi detiene il monopolio dell’uso legittimo della forza deve essere pienamente consapevole della responsabilità che esercita. Occorre assumere la consapevolezza che qualsiasi giustificazione di fronte all’accaduto (e in questo caso affermiamo con certezza che non ce ne sia nemmeno una) perde di significato, perché la democrazia è l’unico sistema di governo in cui la forma dell’esercizio del potere è parte integrante del suo contenuto e della sua sostanza».

Per questo «condanniamo chi, anziché custodire l’ordine pubblico, l’ha turbato, commettendo un atto intollerabile che deve essere sanzionato. Occorre – prosegue il comunicato – che il nostro Paese si assuma l’impegno di mettere in discussione il sistema educativo anche delle forze armate. Il loro addestramento, infatti, deve tornare alle fondamenta della democrazia ed essere in grado di sapere respingere psicologicamente e fisicamente qualsiasi forma illegittima di esercizio della forza».

Infine, il grazie dei giovani di Ac a chi era in piazza. A loro, scrivono, «vogliamo dire grazie perché ci hanno ricordato quanto sia importante esprimere pacificamente le proprie idee, nonostante tutto. Auspichiamo che questo evento non sconforti il loro e il nostro desiderio di partecipazione e di giustizia, affinché possano essere esempio per la nostra generazione verso un continuo impegno per un mondo più giusto e umano».

Le Acli: fare immediatamente chiarezza

«Rimaniamo davvero stupefatti di fronte alle immagini del pestaggio da parte della polizia contro un corteo pacifista che stava sfilando a Pisa, corteo tra cui c’erano tanti studenti minorenni», ha dichiarato il presidente nazionale delle Acli. «L’uso della forza per contrastare ragazzi inermi che manifestano delle opinioni legittime non è mai giustificabile. A nome mio e di tutte le Acli – ha proseguito Manfredonia – esprimo la vicinanza ai ragazzi feriti e, nello stesso tempo, chiediamo con forza che venga immediatamente fatta chiarezza su quanto accaduto perché si accertino i fatti e i responsabili di una simile azione. Il pestaggio di oggi è inaccettabile e ci motiva ancora di più a gridare che la pace è possibile perché la follia della guerra sta entrando nella nostra quotidianità, come dimostra questa violenta azione della polizia che rinuncia preventivamente al dialogo».

Sulla vicenda è intervenuto anche qualche settimanale diocesano, segno che nel mondo cattolico la vicenda ha lasciato strascichi, acuendo il senso di fastidio e di estraneità nei confronti dell’esecutivo e della sua politica “muscolare” che percorre ormai da mesi il mondo ecclesiale. La voce e il tempo di Torino, il 26 febbraio, commenta così, con le parole inusitatamente dure di Pier Giuseppe Accornero: «Alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni, al governo e ai partiti di destra, ai poliziotti che hanno selvaggiamente manganellato gli studenti quindicenni che manifestavano ordinatamente e pacificamente a Pisa, Mattarella ha detto una cosa saggissima e condivisibilissima: “I manganelli esprimono un fallimento”. Infatti hanno fallito gli agenti – raramente si è vista tale violenza – e i loro capi-reparto; hanno fallito i responsabili locali; capo della Digos, questore e prefetto; hanno fallito il capo della Polizia e il ministro degli Interni che, dopo, hanno accampato scuse improponibili; hanno fallito il governo e i partiti che lo sostengono. Interessante osservare che a manganellare non c’erano né i Carabinieri, né la Guardia di Finanza, solo la Polizia. Ed è inutile girarci attorno: sono convinto che i poliziotti hanno picchiato così rudemente perché convinti di avere alle spalle un governo pronto a difenderli. E Salvini batte ogni primato di scempiaggine affermando: “Chi batte un poliziotto è un criminale». E i poliziotti che picchiano senza motivo dei giovani inermi, che cosa sono? Dei criminali anche loro. Ma certo, Salvini ammira il “macellaio” Putin e la sua polizia assassina».

A pensarla in modo diametralmente opposto è il vescovo emerito di Chioggia, mons. Adriano Tessarollo (alla guida della diocesi veneta dal 2009 al 2021), che in un post sul proprio profilo Facebook – poi rimosso – ha scompostamente attaccato la giornalista Bianca Berlinguer, colpevole di aver difeso gli studenti e criticato i pestaggi della polizia nella trasmissione televisiva È sempre Cartabianca. «Giovani o ragazzi devono stare alle regole; i poliziotti fanno il loro dovere e chi si presenta con violenza va fermato con la forza se non si fermano! Ma la “Bianca” (Berlinguer, ndr) si vede chi è. Mi piacerebbe fosse aggredita e che le forze dell’ordine si girassero dall’altra parte». «La ringrazio per la sua testimonianza di amore cristiano», la replica di Berlinguer al vescovo, che del resto non è nuovo a polemiche a mezzo stampa: nel 2018 attaccò la copertina di Famiglia Cristiana «Vade retro Salvini», nel 2019 si scontrò con l’allora ministro all’Istruzione Lorenzo Fioramonti che si era detto favorevole alla rimozione del crocefisso dalle scuole, nel 2020 propose di installare degli sportelli bancomat nel duomo di Chioggia per favorire le offerte da parte dei fedeli. 

«Mobilitare tutta la Chiesa» per non uccidere la legge sulle armi

5 marzo 2024

“il manifesto”
5 marzo 2024

Luca Kocci

Si trovano nell’area fra Golfo Persico e Mar Rosso alcuni fra i migliori clienti delle industrie armiere italiane: il Qatar negli ultimi cinque anni ha acquistato armi made in Italy per oltre tre miliardi di euro, l’Arabia Saudita per 432 milioni. Ma è l’intero Medio Oriente a essere un grande mercato per i produttori italiani di armamenti, dalla Turchia (oltre un miliardo) a Israele (90 milioni). Tutto ciò nonostante esista una legge, la 185 del 1990, che proibisce la vendita di armi a Paesi in guerra, governati da regimi dittatoriali o che non rispettino i diritti umani. A meno che – ecco il grimaldello che consente di aggirare la norma – non abbiano accordi di cooperazione militare con l’Italia.

In realtà è l’intero impianto della legge che rischia di essere demolito, dopo l’approvazione in Senato di alcune modifiche che rendono ancora più facile esportare armi e riducono la trasparenza finanziaria. È per questo che ieri, in attesa del voto finale alla Camera, alcune associazioni cattoliche (Azione cattolica, Acli, Comunità Papa Giovanni XXIII, Movimento dei Focolari, Pax Christi e gli scout dell’Agesci) hanno rilanciato l’appello della Rete italiana pace e disarmo per «fermare lo svuotamento della legge 185».

«Siamo a un punto di svolta verso il via libera generalizzato all’esportazione di armi a chiunque», spiega Maurizio Simoncelli, di Archivio Disarmo. «In un mondo sempre più armato e militarizzato, abbiamo ancora più bisogno della 185», aggiunge Alex Zanotelli, religioso comboniano dalle cui denunce negli anni ‘80 sul mensile Nigrizia del traffico di armi in Africa partì la mobilitazione che nel 1990 portò all’approvazione della legge che ora il governo vuole smontare.

L’appello della Rete punta l’attenzione sulle due principali modifiche peggiorative introdotte al Senato: il Comitato interministeriale per gli scambi di materiali di armamento per la difesa, unico debole organismo di controllo delle autorizzazione all’export che, anche in virtù del meccanismo del silenzio-assenso, rischia di liberalizzare totalmente il mercato; la cancellazione integrale della parte della relazione annuale del governo al Parlamento che riporta i dettagli dell’interazione tra banche e industrie armiere. «I rapporti di forza a Montecitorio sono negativi», ammette Paolo Ciani, già responsabile romano di Sant’Egidio, ora deputato di Demos, unico parlamentare presente. Occorre allora parlare alla società, per cui Zanotelli si rivolge espressamente alla Chiesa: «Gli enti ecclesiastici dovrebbero dare un segnale forte togliendo i propri soldi dalle banche che sostengono il commercio di armi, i vescovi e i parroci invitare i fedeli alla mobilitazione». Del resto la Cei – che ancora non ha reciso tutti i rapporti con le banche armate – in passato è intervenuta puntualmente per contestare alcuni provvedimenti legislativi, dalla legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita al testamento biologico: perché non potrebbe farlo anche in difesa della legge 185?