Cattolici e musulmani per la fine del Ramadan: da Milano a Roma, fratelli tutti

“Adista”
n. 15, 20 aprile 2024

Luca Kocci

«Siamo per una vita civile e sociale capace di contenere al proprio interno la pluralità delle religioni». Mons. Luca Bressan, vicario episcopale per la cultura, la carità, la missione e l’azione sociale della Diocesi di Milano, in un’ampia intervista che verrà pubblicata sul fascicolo di maggio di Aggiornamenti Sociali (mensile dei gesuiti del Centro San Fedele di Milano), all’indomani quindi della decisione dell’Istituto comprensivo “Iqbal Masih” di Pioltello (Mi) di sospendere le lezioni il 10 aprile per consentire alle alunne e agli alunni di fede musulmana di festeggiare in famiglia ‘Id al-fitr (la giornata che segna la fine del digiuno di Ramadan: v. Adista Notizie n. 13/24), respinge il pensiero unico identitario e spalanca le porte al pluralismo religioso.

Non ci sentiamo affatto «feriti» dalla decisione della scuola di Pioltello, anzi «riteniamo la libertà religiosa un valore – spiega Bressan –. Viviamo in un contesto di pluralismo delle presenze religiose, che ci piace, e non c’è ragione di negare visibilità a una fede che sul territorio è molto diffusa». E ai timori sollevati soprattutto dalla Lega (il segretario federale nonché vicepremier nonché ministro di infrastrutture e trasporti Matteo Salvini e il ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara) di un indebolimento dell’«identità cristiana» del nostro Paese, Bressan risponde chiaramente: «Alcuni hanno ravvisato nella vicenda i segni di una volontà di cambiare l’identità cristiana del nostro territorio», ma «la fede cristiana non cambia affatto nel suo nucleo fondamentale. Possono mutare invece le forme in cui la si vive, come conseguenza del necessario confronto con l’evoluzione del contesto sociale al cui interno siamo chiamati a viverla. Una società che cambia ci chiede di cambiare il modo di stare al suo interno».

Il problema, argomenta il vicario episcopale della diocesi di Milano, è determinato dall’incapacità di confrontarsi con il mondo islamico «che ormai è tra noi ed è arrivato non per una spinta di proselitismo o di conquista religiosa, ma per motivi sostanzialmente economici: la gente, venuta qui alla ricerca di lavoro e di una vita più dignitosa, si è portata dietro la propria cultura e anche la propria fede».

Un’incapacità che riguarda soprattutto i cattolici. «Mi sembra di aver notato tre atteggiamenti diversi» da parte dei credenti, conclude il proprio ragionamento Bressan: «Il primo, tutto sommato minoritario, è la condivisione piena e ragionata della posizione della Diocesi, accogliendone anche la profondità della prospettiva di fede da cui nasce e la ricchezza del lavoro compiuto dalla teologia delle religioni. Un secondo atteggiamento, ancor più minoritario del precedente, è il dissenso aperto, motivato dalla paura di uno smarrimento dell’identità cristiana che conduce a leggere il confronto nella chiave dello scontro. In realtà questa posizione non si accorge che la perdita dell’identità cristiana non è legata alla presenza di altre religioni. A qualcuno che mi diceva che quelli che vengono a vivere qui dovrebbero assumere i nostri valori mi è capitato di chiedere: “Ma lei a Pasqua è stato a Messa?”. Mi ha stupito sentirmi rispondere, con fastidio: “Che cosa c’entra?”. Ecco, la perdita dell’identità cristiana e dei suoi valori dipende dal fatto che non li custodiamo e non li coltiviamo, non dal fatto che gli immigrati musulmani non partecipano alla Messa o che ci impegniamo nel dialogo con loro. Il terzo atteggiamento, certamente il più diffuso, è quello di un silenzio pieno di apprensione verso la prospettiva del dialogo e del confronto. Per questo abbiamo bisogno di strumenti con cui rendere ragione di quanto facciamo come credenti. Non si può più vivere una fede di comodo, accontentandosi di rimanere nel solco di quello che ci è stato tramandato, senza una rielaborazione che sia all’altezza dei tempi che stiamo vivendo e quindi della sfida del pluralismo con cui siamo chiamati a confrontarci».

Il pregiudizio dell’identità cristiana

Un ragionamento simile lo fa anche don Claudio Borghi, parroco della chiesa dei santi Donato e Carpoforo a Renate Brianza (Mb), il quale lo scorso 5 aprile ha concesso gli spazi dell’oratorio alla comunità islamica per l’Iftar (il pasto serale islamico consumato dopo il tramonto in occasione dell’ultimo venerdì del Ramadan). L’identità del cristiano è proprio di quella di «essere ospitale col prossimo, chiunque esso sia», spiega don Borghi a Famiglia Cristiana, che nel numero in edicola (15/2024) pubblica una bella inchiesta dal titolo «Se l’oratorio apre per il Ramadan». «Quella dell’ospitalità è una questione evangelica e a riguardo il papa ci ha regalato l’enciclica Fratelli tutti. Noi stiamo provando a metterla in pratica da anni anche perché il 10 per cento della popolazione del territorio è di fede musulmana. Avere un’identità cristiana non vuol dire escluderli, ma aprirsi e dialogare. Non pensavo fosse necessario ribadirlo, ma oggi sembra fondamentale farlo», aggiunge il parroco dei santi Donato e Carpoforo. «Come pastore, non sono le strumentali grida create ad arte ad allarmarmi, quanto piuttosto la tiepidezza di molti sedicenti credenti. La criticità vera non è la presenza della comunità musulmana ospitata per una sera in oratorio, quanto i pregiudizi di chi troppo di frequente parla delle “radici cristiane da difendere” ma poi fatica ad essere seme fecondo e quindi credibile nella nostra società». Anche don Borghi, come il dirigente della scuola di Pioltello, è stato duramente attaccato dai leghisti: «È opportuno che un centro come l’oratorio, legato alla parrocchia, alla Chiesa cattolica, diventi punto di celebrazioni di riti di altre religioni come il Ramadan? Sarebbe come celebrare la Pasqua in una moschea», ha detto Alessandro Corbetta, capogruppo della Lega nel Consiglio regionale della Lombardia. Senza sapere però che l’idea era arrivata dall’amministrazione comunale di Renate, a guida leghista (il sindaco è Matteo Rigamonti) che, dopo aver negato gli spazi alla comunità islamica che si era rivolta prima al Comune, aveva suggerito: «Chiedete alla parrocchia!».

Verso un mondo migliore

Quello di Renate Brianza non è un caso unico: per esempio la festa di fine Ramadan, il 10 aprile, è stata celebrata insieme, cristiani e musulmani, anche nella chiesa di Vicofaro (Pt), guidata da don Massimo Biancalani, che da anni ospita i migranti nei locali della parrocchia; e a Centocelle, quartiere popolare della periferia est di Roma, lo scorso 6 aprile, fedeli cattolici e credenti musulmani hanno celebrato insieme «l’Iftar della fratellanza» cenando all’aperto sui tavoli allestiti sul sagrato della parrocchia di San Felice da Cantalice, presenti anche il parroco, il cappuccino p. Mario Fucà e l’imam della moschea Al-Huda Mohamed Ben Mohammed. «L’obiettivo di questo Iftar della fratellanza è l’incontro, un passo in avanti per la costruzione di una società pacifica in cui ci sono amore, fiducia e amicizia, valori che ci uniscono», spiega l’imam, con il pensiero rivolto a Gaza, dove ci sono «dei nostri fratelli e delle nostre sorelle che non hanno cibo, bambini che muoiono di fame e di sete. È un grande dolore. Ritrovandoci insieme stiamo facendo un piccolo passo per un mondo migliore».

Essere cristiani vuol dire essere universali

«In Italia oggi abbiamo bisogno di crescere nell’inclusione. E questo lo si fa in tanti modi, tra cui prendere sul serio il cammino spirituale altrui, con le sue feste e i suoi riti, condividendolo anche in spazi a vocazione cattolica, come gli oratori», spiega a Famiglia Cristiana mons. Derio Olivero, vescovo di Pinerolo (To) e presidente della Commissione Cei per l’ecumenismo e il dialogo. «Le parrocchie, che sono costituite da luoghi come la chiesa e l’oratorio, ma che sono soprattutto fatte dalle persone, da anni colgono l’occasione del Ramadan per dire che le religioni sono un grande strumento di integrazione. Perché essere cristiani vuol dire essere universali, capaci di dialogo con tutti. E condividere lo spazio della propria comunità è il primo modo per essere ospitali», aggiunge il vescovo di Pinerolo, che spiega così la difficoltà di molte persone, cattolici compresi, ad accorgersi di un’Italia sempre più plurale: «Questo succede perché spesso si assimila l’apertura al relativismo. E questo fomenta chi grida all’islamizzazione del Paese e diffonde paure immotivate. Aprirsi non vuol dire che essere cristiani o musulmani è uguale. Significa arricchire la propria identità. Un credente non può, se è tale, restare chiuso in se stesso. Perché il Dio in cui crede, a qualsiasi religione appartenga, è il massimo dell’apertura».